Paul Stephenson, (2004) ‘Byzantium transformed, c.950-1200.’, Medieval encounters., 10 (1-3). pp. 185-210.
Traduzione di Federico Lisi
ABSTRACT
Due fenomeni furono primari nella trasformazione e nel collasso definitivo del sistema imperiale bizantino nel periodo compreso tra il 950 e il 1204: una prolungata crescita economica e demografica, che lo Stato fallì completamente a dirigere e ad utilizzare; e l’emergere di una potente, consapevole aristocrazia, intenzionata ad approfittare delle risorse a danno dello Stato. Durante il decimo e l’undicesimo secolo furono progettate linee politiche imperiali che miravano a rinforzare le esistenti strutture politiche e fiscali, sostegno dell’economia statale, e a contenere il potere degli aristocratici. Tali misure fallirono. I tentativi del dodicesimo secolo seguirono un’altra linea di condotta, tentando di imbrigliare gli interessi e la ricchezza dell’aristocrazia, ancorata alla terra, in quelli dello Stato. Questi non fornirono una soluzione duratura, ma al contrario portarono ad una maggior frammentazione politica, lotte intestine, fermento sociale ed in definitiva al collasso del sistema statale negli ultimi anni del dodicesimo secolo.
L’Impero Bizantino, come i suoi vicini europei e mediterranei, sperimentò una sostenuta crescita demografica ed economica tra la fine del decimo, l’undicesimo ed il dodicesimo secolo. Ma mentre le civiltà che si trovavano immediatamente ad ovest e ad est riuscirono a sviluppare nuove istituzioni per controllare ed utilizzare la crescita, quelle sviluppate dai Bizantini fallirono. Inoltre, gli espansionistici vicini sia occidentali che orientali furono in grado di approfittare della debolezza bizantina. In prima istanza possono essere citati due ovvi episodi: la vittoria Selgiuchide nella battaglia di Manzikert nel 1071, ed il conseguente insediamento Turco e Turcomanno in Anatolia; e il sacco di Costantinopoli da parte delle forze della Quarta Crociata nel 1204, che vide la fine di Bisanzio come potere imperiale. Entrambe gli episodi furono il sintomo piuttosto che le cause del declino politico bizantino o della sua trasformazione[1].
L’incapacità di imbrigliare l’espansione economica nell’interesse dello Stato fu dovuta al declino di Bisanzio come potere politico centrale, e la traiettoria di questo declino è più puntualmente tracciata in due aree: la perdita del controllo statale sull’oro, il mezzo per la tassazione ed il pagamento dei titolari di uffici pubblici; e la crescita di un’aristocrazia, sempre più autocosciente e coesa, in possesso di interessi opposti a quelli dello Stato. Conosciuti nella legislazione contemporanea come i “potenti”, questi aristocratici ponevano gli interessi privati al di sopra di quelli dello Stato, perfino quando erano detentori di uffici pubblici. La dispersione di risorse che fin qui erano state accumulate per lo Stato, principalmente nella forma di tasse ed imposte sulla terra, e che di diritto fino a questo momento erano state la riserva statale, ancora principalmente concernenti la tassazione degli interessi dei proprietari terrieri, ma anche quindi su coloro che lavoravano la terra, portò alla frammentazione politica e all’emergere di una nuova gerarchia socio-economica. Durante il decimo e l’undicesimo secolo furono progettate linee politiche imperiali che miravano a rinforzare le esistenti strutture politiche e fiscali, sostegno dell’economia statale, e a contenere il potere degli aristocratici. Tali misure fallirono. I tentativi del dodicesimo secolo seguirono un’altra linea di condotta, tentando di imbrigliare gli interessi e la ricchezza dell’aristocrazia, ancorata alla terra, in quelli dello Stato. Questi non fornirono una soluzione duratura, ma al contrario portarono ad una maggior frammentazione politica, lotte intestine, fermento sociale ed in definitiva al collasso del sistema statale negli ultimi anni del dodicesimo secolo.
L’undicesimo secolo: 950-1081
E’ ora evidente, contrariamente all’interpretazione che prevalse per la maggior parte del ventesimo secolo, che l’economia dell’impero bizantino si espanse rapidamente tra il 950 e il 1200[2]. E’ anche chiaro che in questo stesso periodo emerse un’aristocrazia che era integrata al sistema statale, ma il cui potere non rimase solamente nell’accesso agli uffici dello Stato. Mentre gli uffici pubblici rimasero prestigiosi e potenzialmente lucrativi per tutto il periodo in considerazione, per parafrasare Michele Psello, il grande erudito bizantino dell’undicesimo secolo, molti preferirono “far venir fuori il gran nome delle loro famiglie”[3]. Queste eruzioni includevano i Focadi, i Dukas e i Comneni, a turno tutte famiglie imperiali, ma i cui membri furono impegnati in prima istanza alla promozione della famiglia e dei suoi interessi a spese dello Stato. L’emergere di un’aristocrazia autocosciente può essere seguita nelle storie, nelle cronache e nelle vite dei santi, dove a partire dal 1200, l’80% degli individui ha un cognome, in contrasto con il 20% dell’800 circa[4]. L’emergere di un’ autoconsapevolezza aristocratica è ancor più marcato nei sigilli di piombo che erano utilizzati per rendere sicura e garantita la corrispondenza ufficiale. Non è sopravvissuto nemmeno un singolo sigillo anteriore al 900 che mostri un nome di famiglia, ma dozzine a partire dall’ultimo quarto del decimo secolo e centinaia (forse migliaia) a partire dall’undicesimo secolo mostrano un cognome. Il tipico sigillo ha impresso un nome di battesimo seguito dal titolo e dal rango detenuto dal soggetto nella gerarchia dello Stato e termina con il cognome[5]. Questi individui, rappresentanti sia dello Stato che delle loro famiglie, possono anche aver percepito un conflitto d’interesse, ma un gran numero di evidenze suggerisce che pochi provarono qualche rimorso a porre gli interessi dello Stato al di sotto di quelli della parentela.
Il corpo del reato più analizzato per questo conflitto tra lo Stato e gli aristocratici è la legislazione fondiaria emanata dagli imperatori del decimo secolo, principalmente Romano I (920-44), Costantino VII (913/344-59) e Basilio II (963/976-1025). Ciascuno di questi imperatori promulgò leggi, conosciute come “novelle” (nearai), direttamente contro i cosiddetti “potenti” (dynatoi), cercando di limitare le invasioni sulla terra di pertinenza dei “poveri” (penetes, ptochoi). La retorica dei “potenti” e dei “poveri” mascherò una situazione sottostante che poco aveva a che fare con il benessere dei soggetti umili o dei contadini agricoltori: lo Stato stava perdendo terre tassabili a favore delle famiglie ricche che erano meglio posizionate per offrire protezione o affermare il patronato e a resistere alla tassazione[6]. Le acquisizioni di terra potevano seguire a cattivi raccolti, a carestie o a siccità, come le leggi più antiche suggeriscono. Tuttavia, i “potenti” divennero maggiormente in grado di imporre il proprio controllo nelle buone annate, grazie alla crescita della popolazione e ad un mercato delle terre abbastanza vigoroso. Avendo acquisito terre, con mezzi legali o subdoli, i “potenti” potevano resistere alla richiesta delle tasse più facilmente dei “poveri”, sia impedendo l’accesso agli esattori delle tasse ed alle loro scorte armate, sia ottenendo esenzioni dagli imperatori, o sicuramente ottenendo la responsabilità per l’amministrazione fiscale di un particolare distretto[7]. Conseguentemente gli imperatori cominciarono a mostrare un bramoso desiderio di assicurare l’integrità fiscale del villaggio (chorion), che era anche l’entità corporativa responsabile per il pagamento delle tasse fondiarie. Il fatto che, nel 996, Basilio II abbia emesso delle leggi più dure per rinforzare questa politica suggerisce, certamente, che questa non stesse funzionando. Ma da ora in poi, gli imperatori, escogitarono metodi alternativi per competere con gli aristocratici: agire come facevano i “potenti”, ma spalleggiandosi con la forza coercitiva dello Stato[8].
Romano I, autore delle prime novelle contro i “potenti” (dynatoi) fu anche il primo imperatore ad incorporare le terre nuovamente conquistate nel demanio imperiale come patrimonio (kouratoria). Tuttavia rimase il caso della terra abbandonata (klasma), per esempio abbandonata di fronte ad una minaccia, invasione o cattiva annata, doveva rimanere all’interno del chorion. Basilio II cambiò questa politica, acquistando i klasma per lo Stato, e aggiungendovi ulteriori territori conquistati, sopra i quali vennero insediati coltivatori dipendenti (paroikoi) che pagavano un affitto. Basilio instituì anche un nuovo dipartimento governativo, il Sekreton ton oikeiakon, che era responsabile per il controllo delle terre statali, comprendendo la raccolta degli affitti dei dipendenti. Al volgere del dodicesimo secolo questo dipartimento era diventato il principale organo responsabile per la tassazione nelle province. Questo cambiamento politico ebbe un significativo impatto sociale, specialmente se posto accanto alla continua crescita degli interessi terrieri dei “potenti”. Nicolas Oikonomides ha riassunto il tutto così: “…ci fu indubitabilmente un aumento delle risorse dello Stato, [e conseguentemente] la composizione della società nelle aree rurali cambiò sostanzialmente quando crebbe il numero degli abitanti del villaggio dipendenti (paraikoi). In altre parole, ci fu una tendenza a massimizzare i benefici economici dello Stato a danno della struttura sociale delle province, quando lo Stato si rivolse all’implementazione della stessa politica che i dynatoi…stavano ancora applicando”[9].
Si potrebbe temperare questa connotazione negativa con l’informazione, fornitaci da Psello, che gli imperatori cercarono anche di migliorare la produttività attraverso la reclamazione di terre e innovazioni nella gestione delle tenute e nelle tecniche di coltivazione. Così, “l’acume [di Costantino IX] fu provato dai profitti che realizzò; dagli intelligenti modi con cui salvò la manodopera; le efficienti e tuttavia economiche basi su cui condusse le sue tenute…dal sistema con cui prevenne le stagioni nelle sviluppo delle culture; dalle ingegnose invenzioni che gli permisero di far a meno dei braccianti; dai miracoli dell’improvvisazione, così meravigliosi che la maggior parte delle persone non poteva credere ai propri occhi, vedendo oggi un campo dove ieri avevano visto una piatta pianura e due giorni addietro una collina”[10]. Anche i monasteri erano attivi nel coltivare nuove terre e nel perfezionare la gestione delle tenute. Si disse che il fondatore della Grande Lavra sul monte Athos, Sant’Atanasio, avesse bonificato terre e dotato d’irrigazione uno sterile promontorio roccioso[11]. Atanasio beneficiò di una grande donazione dal futuro imperatore Niceforo Foca che finanziò la costruzione iniziale. Di là in avanti, la Lavra fu avida e competitiva come ogni altro “potente”, all’avanguardia di coloro la cui abilità di coercizione e di stabilire patrocini creò una classe di paroikoi da contadini coltivatori precedentemente liberi. Infatti, è superfluo distinguere tra le attività degli aristocratici laici e dei monasteri, in una società che non conobbe mai ordini religiosi, i membri dell’aristocrazia laica furono in grado ed ansiosi d’istituire fondazioni religiose private, per la salvezza delle loro anime e di quelle dei membri delle loro famiglie. Per assicurare la continutità di queste fondazioni, le esenzioni fiscali (exkousseia) furono messe al sicuro da imposte terriere e da corvé addizionali[12]. Ogni imperatore tranne Michele V (che morì entro un anno dall’assunzione della carica nel 1041) è noto per aver concesso privilegi estesi ai monasteri principali, in particolare a quelli dell’Athos. Mentre i monasteri acquisivano maggiori ricchezze, progressivamente diventarono non obbligati a mandare denaro indietro a Costantinopoli.
Basilio II evidentemente suscitò nei suoi “potenti” sottoposti un terrore sufficiente a permettergli di dare attuazione alle sue leggi, perfino obbligando i ricchi a pagare le tasse arretrate dovute dai “poveri”. Questo è, trasferì la responsabilità di gruppo per le tasse (allelengyon) detenuta dai contadini che erano stati inadempienti o erano scomparsi dal villaggio (chorion) ai potenti (dynatoi)[13]. La Peira, una collezione di casi legali, derivata in gran parte dalla carriera di un singolo giudice, Eustathios Rhomanos che fu attivo sotto Basilio, “non sorprende riflettendo l’estremo fiscalismo del regno di Basilio. C’è un’intera sezione…intitolata Il fisco ed i suoi privilegi. Eustathios applicò rigorosamente la legislazione terriera di Basilio”[14]. Al di là di semplici atti di coercizione statale o di confische, i “poveri” vennero incoraggiati ad avanzare rivendicazioni contro i “potenti” in azioni private che erano conseguenza di compensazioni per gli agricoltori svantaggiati e di acquisizioni di terra per lo Stato. Basilio inoltre aumentò sostanzialmente gli interessi terrieri dello Stato e del tesoro con la conquista e la confisca di proprietà e di tesori. Fu quindi notoriamente in grado di lasciare 200.000 talenti (talanta) di oro. Un talento (talanton) in questo periodo corrispondeva ad una libbra di oro o a 72 monete auree (nomismata), perciò Basilio lasciò approssimativamente 14.400.000 nomismata nel tesoro alla sua morte[15].
Mantenere questa somma fuori dalla circolazione potrebbe aver avuto effetti deflazionistici, poiché l’economia dello Stato bizantino operava attraverso un rifornimento estremamente inelastico di metalli preziosi con i quali battere e far circolare monete d’oro e di argento. L’economia in espansione aveva prodotto una richiesta di monete che il sistema statale non era in grado di soddisfare facilmente nemmeno volendolo. Qui val la pena citare Michael Hendy: “La moneta [in Bisanzio] era essenzialmente un fenomeno fiscale: prodotta e distribuita, sostanzialmente, con lo scopo di rifornire lo Stato di un mezzo standardizzato con cui incassare le entrate pubbliche e distribuire gli investimenti. Sarebbe assurdo insinuare che essa non circolasse liberamente e svolgesse la funzione di mediare gli scambi privati; ma non era questa la sua funzione primaria, ma solamente la sua secondaria”[16]. La spesa pubblica nel decimo e nell’undicesimo secolo era principalmente costituita dal pagamento annuale in oro (rogai, pl.; roga, sing.) ai funzionari statali, ai militari, agli ecclesiastici e ai civili, di Costantinopoli e (parzialmente) delle province[17]. Una cerimonia della distribuzione fu osservata, notoriamente, da Liutprando di Cremona la Domenica delle Palme del 24 marzo 950[18]. Ci si aspettava poi che questo denaro scorresse giù verso i livelli inferiori, attraverso i pagamenti delle elitè verso i loro subordinati, con scambi commerciali o tramite cambiavalute professionisti, poiché tutti erano obbligati a pagare le tasse in settembre in oro qualora l’ammontare da loro dovuto fosse valutato almeno 2/3 nomisma. Il cambio (antistrophe) sarebbe stato dato in monete di rame[19].
Successivamente alla morte di Basilio II furono introdotte politiche fiscali meno rigorose e le riserve del tesoro vennero svuotate rapidamente. Senza la paura suscitata da Basilio non fu più a lungo possibile ottenere l’allelengyon dai “potenti” e questa clausola della novella di Basilio fu revocata da Romano III (1028-34)[20]. Entro una decade ci furono segnali che le monete auree scarseggiavano ancora una volta a Costantinopoli, furono allora prese misure correttive, anche lungo tutto l’undicesimo secolo, ciò fa ipotizzare un’ininterrotta sete di oro per il servizio dell’economia di Stato[21]. Il fallimento di questi tentativi lasciò in bancarotta lo Stato intorno al 1070, seguita ad una rapida svalutazione della moneta. Un precoce segno di questa sete di oro da parte dello Stato è la richiesta, nella tarda decade del 1030, che le tasse nelle terre di Bulgaria fossero pagate in valuta aurea. Basilio II aveva annesso la Bulgaria all’impero nel 1018 e, riconoscendo il basso livello di monetazione della regione, aveva stabilito che il pagamento delle tasse avvenisse in natura. Tale politica ebbe senso fin quando i Bizantini mantennero una grossa armata di occupazione nei territori conquistati. Col tempo, tuttavia, l’esercito di stanza fu disperso e le tasse vennero richieste in accordo alle stesse regole applicate nelle altre parti dell’impero. Questo evento fece scoppiare una serie di ribellioni nei Balcani occidentali tra il 1040 e il 1042[22]. Sebbene le ribellioni vennero soppresse, la politica di congedare le forze locali continuò, soprattutto come misura per prelevare tasse in metalli preziosi verso il centro. Tale politica si rifaceva prevalentemente alla fiscalizzazione della strateia, ovvero la politica in base alla quale coloro i quali precedentemente dovevano un servizio militare (strateia) allo Stato diventarono in grado, anzi spesso vi furono obbligati, di commutarlo in un pagamento in denaro. Il più famoso fallimento associato a questa politica è attribuito a Costantino IX Monomaco (1042-55), che stabilì di congedare le armate dell’Iberia Caucasica, che fu immediatamente invasa dai Turchi Selgiuchidi. Si è sostenuto che le grandi armate di contadini fossero mal preparate a resistere a bande di nomadi estremamente mobili, e che la commutazione in pagamenti in denaro permise di acquistare i servizi di forze mercenarie molto più adatte allo scopo in questione[23]. Ciò nonostante è difficile sfuggire alla conclusione che la decisione del Monomaco fu meno strategica che finanziaria, e rappresenta un altro esempio della sete di oro all’interno dell’economia statale, dato che questa annaspava sulla scia di una generale espansione economica e del drenaggio di riserve auree per scopi privati[24]. La tesaurizzazione (thesaurizein) – mettere al sicuro denaro in nascondigli (sotterranei) – era sempre stata popolare, e perciò avversata dalla legislazione di uno Stato ansioso di mantenere l’oro in circolazione[25]. Negli anni trenta del 1000 ingenti fortune private furono ammassate, delle quali lo Stato fu in grado di confiscare solamente una piccola parte. Per esempio, due ecclesiastici anziani, il Patriarca Alessio Studita (1043) e Teofane Metropolita di Salonicco (1038) furono privati di riserve d’oro pari, rispettivamente, a 2500 e a 3300 talenti (un totale pari a 417.600 nomismata)[26]. Questo ammontare di oro detenuto da solamente due dei “potenti” era l’equivalente di forse il 10% del budget annuale dello Stato, che è stato stimato in 4-5 milioni di nomismata; ed è probabilmente maggiore del numero di nuovi nomismata coniati in ogni singolo anno (tra i 250.000 ed i 300.000)[27].
Lo stesso ministro di Stato che richiese tasse in oro dai Bulgari, Giovanni Orfanotrofo, introdusse imposte agricole su vasta scala in ogni parte delle terre bizantine, presumibilmente come espediente per estrarre rapidamente grandi somme di denaro dai facoltosi come rifornimento per le casse prosciugate dello Stato. Questa politica continuò per tutto l’undicesimo secolo, con serie conseguenze sociali. In prima istanza, la vendita dei diritti di tassazione ai “potenti” fu a spese dei “poveri” – queste categorie legali del decimo secolo persistettero nel corso dell’undicesimo. I “poveri” furono immediatamente soggetti ad un massiccio incremento d’imposte straordinarie e di corvé, e se non in grado di pagare erano costretti a vendere e ad entrare al servizio dei “potenti”[28]. In definitiva, quindi, la politica fu a spese dello Stato, che sperimentò ancor più grandi malcontenti sociali, e godette di una diminuita capacità di controllare i suoi stessi agenti. Inoltre, siccome i “potenti” non avevano intenzione di imporre tasse sulle loro terre, minori entrate fiscali raggiunsero il tesoro imperiale, perfino più dell’eccesso di ricchezza che veniva pompato nelle mani dei privati.
La domanda di oro portò inoltre ad un innalzamento dei tassi d’interesse a Costantinopoli. In accordo con la sopra menzionata raccolta di casi legali, la Peira, che fu compilata prima del 1045, ci fu una corrispondente riduzione nella consegna degli stipendi annuali (rogai) basati su titoli onorifici dell’amministrazione bizantina[29]. Gli uffici di Stato erano, per la maggior parte, acquistati con un pagamento in denaro non rimborsabile. Ciò rappresentava un investimento in una carriera burocratica ed oltre, infatti il pagamento della roga annuale rappresentava un ritorno del 2,5-3,5% sui titoli inferiori e del 5,5-8,3% per i titoli con maggior anzianità (ad esempio quelli senatori)[30]. A partire dal 1045, molti pagamenti di roga, che erano fissi, rappresentarono un investimento povero se paragonato con il prestito di denaro ad interesse sul libero mercato. Tuttavia, gli uffici di Stato portavano grande prestigio e come tali erano estremamente allettanti per i nuovi ricchi. Psello scrisse sprezzantemente di Costantino IX per aver “spalancato le porte del senato” a differenti gruppi sociali, principalmente impiegati governativi precedentemente inelegibil per tale promozione[31]. Costantino non fece questo per diversificare le basi sociali dell’elitè – anche se questa fu una delle conseguenze – né sicuramente per promuovere gli interessi dell’aristocrazia “civile” su quelli della “militare”, come una volta sostenuto da Ostrogorsky[32]. La più ovvia ragione per offrire uffici di Stato in più larga misura fu il desiderio di ottenere grandi pagamenti in oro dagli individui con aspirazioni sociali[33]. Ancor più ovvia, quindi, fu la determinazione di Costantino X Dukas (1059-67) di rendere i mercanti e gli artigiani della capitale eleggibili per i ranghi del senato. Secondo Michele Attaliate, Costantino X “desiderava sopra tutto il resto l’incremento delle finanze pubbliche e le udienze dei processi civili” per raccogliere denaro attraverso le multe[34]. Una politica complementare era la vendita dello status di senatore, fino al punto di svalutare il prestigio che ad esso era connesso[35]. Anche se nel decimo secolo il prezzo per il grado di protospatharios – il livello più basso per un senatore – rimase invariato, ogni nuovo senatore fornì come pagamento una somma di oro pari a 60 talenti (4320 nomismata) al tesoro, ridirigendo il denaro dai rigogliosi mercati di Costantinopoli verso l’economia statale.
La più ovvia via per un imperatore, o anche per un’imperatrice, per conservare l’oro era quella di disdegnare le tradizionali cerimonie di distribuzione. Sappiamo che al momento della sua ascesa al trono, in seguito alla morte del marito Costantino IX nel 1055, Teodora rifiutò di effettuare le distribuzioni ai funzionari di Stato che ci si aspettava da ogni nuovo sovrano. Lo fece affermando che questa non era la sua prima incoronazione, avendo già regnato insieme alla sorella Zoe prima del matrimonio con Costantino avvenuto nel 1042. Isacco I Comneno, imperatore dal 1057, non potè usare questa giustificazione, ma si spinse ancora avanti, revocando le donazioni fatte dal suo effimero predecessore Michele VI (1056-7). Si guadagnò la collera della Chiesa “portando via la maggior parte dei soldi da loro messi da parte per gli edifici sacri, trasferendo questi fondi all’erario pubblico, dopo aver valutato le semplici necessità del clero”[36]. Privo nel governare del pugno di ferro di Basilio II, le azioni di Isacco lo portarono all’estromissione nel 1059.
Tuttavia tali misure non furono sufficienti per prevenire la svalutazione della monta, graduale fin verso il 1070, più rapido dopo che lo Stato andò in bancarotta nel decennio successivo. Gli imperatori da Michele IV (1034-41) a Romano IV (1068-71) ridussero il contenuto d’oro del nomisa a peso intero da 22 a 18 carati. Nel corso degli anni settanta del 1000 questo crollò a 16, a 10 ed infine a soli 8 carati. Ci fu una corrispondente rapida svalutazione delle monete in argento, in quanto buona parte delle limitate scorte di argento furono aggiunte alla monetazione aurea. Secondo Morrisson, la graduale svalutazione del periodo 1040-70 fu voluta con l’intento di creare sviluppo, assunto che il volume degli scambi era aumentato molto più rapidamente della quantità di oro disponibile per soddisfare la domanda.
Tutto questo accadde nonostante le monete d’oro non fossero risciolte e ristampate da ciascun imperatore, infatti se ciò fosse accaduto il numero di monete in circolazione sarebbe aumentato del 5 per cento ogni anno. Una cifra più realistica, suggerisce Morrisson, è l’1 per cento l’anno, o l’aumento di un terzo del numero di monete d’oro circolanti nel periodo 1040-70. Eppure questo non fu sufficiente per venire incontro alla sempre più crescente domanda, innescando la crisi della svalutazione degli anni intorno al 1070, e il collasso dell’intero sistema fiscale e delle imposte[38]. Cosa ha scatenato la crisi della svalutazione, facendo così da catalizzatore del collasso dell’economia dello Stato?
Nel 1071 l’Impero subì gli attacchi dei Turchi Selgiuchidi, dei nomadi Turcomanni, e di una varietà di popoli provenienti dai Balcani e da oltre la linea dei Balcani. Si è a lungo sostenuto che la battaglia di Manzikert, dove i Bizantini furono sconfitti dai Selgiuchidi il 26 agosto del 1071, non fosse stata una sconfitta militare così disastrosa per l’Impero. Tuttavia questa fu sintomatica delle lotte intestine tra le più influenti casate aristocratiche in competizione: l’imperatore Romano IV Diogene perse l’appoggio della famiglia Doukas che lo tradì sul campo di battaglia e anche in seguito[39]. E nemmeno le durature conseguenze della battaglia, benché videro bande di nomadi Turcomanni gradualmente insediarsi all’interno dell’altopiano anatolico, privarono l’Impero di vitali terre produttive. La regione era infatti occupata principalmente da grandi fattorie di proprietà di poche famiglie aristocratiche, e le conseguenze della sua perdita furono di gran lunga meno importanti rispetto al mantenimento del controllo sulle fertili terre costiere dell’Asia Minore. E’ stato perfino sostenuto che la perdita dell’altopiano centrale, se non fu proprio un bene per lo Stato in termini di geopolitica, lo fu per la nuova dinastia dei Comneni, che non si mostrarono eccessivamente desiderosi di scacciare i Turchi e i Turcomanni. In definitiva, l’impero pagò un alto prezzo, ma non in termini economici[40].
I Balcani e le terre italiane dell’Impero non erano certo a quel tempo più stabili dell’Anatolia. Sempre nel 1071, Bari l’ultima roccaforte bizantina nell’Italia meridionale, cadde ad opera dei Normanni. Nello stesso anno, il confine danubiano fu attaccato dagli Ungari, a Belgrado, e i Peceneghi varcarono il basso Danubio e si diedero a saccheggi per tutta la Tracia e la Macedonia. In seguito a questi eventi, i popoli slavi si liberarono del giogo romano e scorazzarono in Bulgaria razziando e facendo terra bruciata dietro di sé. Scoje e Nish furono saccheggiate, così come le città lungo la Sava e sul Danubio, tra Sirmio e Vidin, soffrirono grandemente. Inoltre i Croati e i Dioclei sull’intera Dalmazia si ribellarono” [41].
Alla base di queste rivolte, Skylitzes Continuatus poneva “l’insaziabile cupidigia” (aplêstia)dello Tesoriere di Stato, Niceforo, che cercava a tutti i costi di recuperare denaro. Si potrebbe porre l’accento sul fatto che avesse bisogno di liquidi per costituire una difesa adeguata, ma questo non era sufficiente per Skylitzes Continuatus, che metteva a confronto le strategie di Niceforo con quelle di Giovanni Orfanotrofo, che abbiamo incontrato sopra.
Benché le rivolte del 1040-42 fossero state soffocate con scarse immediate conseguenze, l’instabilità degli anni ’70 vide gli introiti delle tasse diminuire e grandi quantità di oro perdute nei rivoli del sistema. Ne seguì la crisi della svalutazione, ma non la successiva ripresa. Furono Alessio I Comneno e la sua aristocratica casata, i primi a restaurare prima l’ordine, operazione che durò fino al 1091, e in seguito a riorganizzare strutture e istituzioni che erano espressione, sviluppate e utilizzate al meglio, delle nuove realtà del dodicesimo secolo.
Il XII Secolo: 1081-1183
Il colpo di mano che portò Alessio I al trono nel 1081 fu un affare di famiglia e il regime che egli stabilì pose i suoi congiunti, per sangue o matrimonio, al centro del potere. Per questa ragione, l’ascesa della casata dei Comneni è stata considerata il trionfo dell’aristocrazia militare. Potremmo, più puntualmente, considerarla il punto di arrivo di diverse tendenze che avevano cominciato a manifestarsi già nel secolo precedente, e avevano visto potere e ricchezza decentralizzati e il governo centrale – non “l’aristocrazia civile” – affamato di oro. La grande conquista dei Comneni è stata non solo di far uscire lo Stato dalla bancarotta, ma anche di restaurare l’integrità geografica dell’impero respingendo ondate di invasori e stipulando accordi con le comunità che si erano stabilmente insediate. Tuttavia, i metodi attraverso i quali questa riconquista fu raggiunta trasformarono l’Impero dei secoli precedenti.
Alessio I, come l’imperatore Isacco, suo zio, si fece presto nemica la chiesa ufficiale a causa alle sue iniziative volte alla ripresa finanziaria. Subito dopo l’insediamento, egli confiscò oggetti sacri dalle chiese e dai monasteri, li fece fondere per ricavarne moneta e ne usò la maggior parte per pagare le truppe. L’apologia che fece Anna Comnena del comportamento di suo padre fa ritenere che le critiche furono feroci, sebbene non fosse la prima volta che una tale azione fosse intrapresa[42]. Alessio, impegnato a guerreggiare contro Normanni, Peceneghi e Turchi, mise sua madre a capo dell’amministrazione interna, con un funzionario, noto come logothetês della sekreta, ad operare per suo conto come capo della burocrazia statale[43]. Allo stesso tempo, il tradizionale sistema di onorificenze era stato radicalmente modificato: ranghi onorari e titoli non erano stati aboliti, ma svuotati di ogni valore con la soppressione dei rispettivi appannaggi (rogai). Tale decisione inizialmente fu causata dalla bancarotta dello Stato, ma poi Alessio decise semplicemente di non ripristinare i rogai [44]. Per di più, piuttosto che riempire la gerarchia esistente con suoi fiduciari, Alessio aggiunse un nuovo ordine di titoli di corte a quelli esistenti, basato sul rango dei sebastos. Il termine – un epiteto imperiale derivante dalla traduzione greca di Augusto – era riservato ai membri della famiglia imperiale di qualsiasi grado, per sangue o per matrimonio (e a qualche alto dignitario straniero). “Alessio creò un nutrito gruppo di sebastoi, alcuni dei quali erano contraddistinti con l’aggiunta di un prefisso al titolo: Protosebastos e Pansebastos, così egli designava i suoi fratelli, rispettivamente Adriano e Niceforo, infine un cognato, Michele Maronita, assurse al rango di panhypersebastos. Allo stesso tempo, Alessio istituì per il fratello preferito, Isacco, un rango ad hoc, combinando sebastos con un elemento del titolo esclusivamente imperiale di autokrator, per formare il titolo di sebastokrator”[45].
Lo storico Giovanni Zonara criticò Alessio perché non agiva come un imperatore ma come il capo di una casta aristocratica, governando a beneficio della sua famiglia. Invero, “egli considerava e chiamava il palazzo imperiale la sua propria casa”[46] Alessio non pagava i suoi parenti in oro, ma piuttosto in privilegi legati alla terra, specialmente alla tassazione sulla terra. Gli esempi sono numerosi e vale la pena di ricordarne un paio: “Nel 1084, il protosebastos Adriano Comneno fu autorizzato a riscuotere tutte le tasse della penisola Cassandra, senza intermediari e a suo totale beneficio. La terra non gli apparteneva, ma lo Stato gliene aveva concesso i ricavi”[47]. Analogamente, ma più sostanziosamente, nel 1094, il sebastocratore Isacco ricevette i ricavi delle terre di Tessalonica, a quel tempo la seconda città dell’impero[48].
Oltre alla sua famiglia, Alessio ricompensò i suoi generali. Gregorio Pacuriano, comandante in capo dell’esercito, aveva il controllo su un esteso territorio in e intorno a Bachkovo (nell’odierna Bulgaria), dove egli fondò il monastero di Petritzos con la prospettiva di ritirarvisi insieme al suo seguito di stretti collaboratori armeni e georgiani. Pacuriano morì in battaglia prima di prendere la tonsura monastica, sbattendo la testa contro un albero mentre cavalcava contro i Peceneghi. Ma questo non ebbe conseguenze, infatti il documento che attesta la fondazione del monastero (typikon) rivela che le sue proprietà erano tutte garantite dall’imperatore, che queste erano state in precedenza terre dello Stato e che egli era autorizzato a riscuotere le entrate dello Stato a suo totale beneficio [49]. Su scala minore, il generale Leo Kephalas ricevette, nel 1084, una proprietà pubblica (proasteion) che era stata precedentemente concessa ad altri militari. Non ci sono indicazioni che gli fossero garantiti i ricavi delle tasse, si deve perciò pensare che Leo ricevette la terra per trarre profitto dai coloni, sempre versando le tasse e con l’obbligo di restituirla allo Stato su richiesta o alla sua morte. Per contro, nel 1086, dopo la sua eroica difesa della città di Larissa in Tessaglia, Leo ricevette il distretto (chorion) di Chostiani, con l’esenzione da tutte le tasse e il diritto di lasciare la proprietà in eredità. Da ultimo, queste terre entrarono nei possedimenti del monastero Grande Lavra sul monte Athos[50].
E’ evidente che i parenti dell’imperatore o i suoi fedeli generali ricevevano il reddito direttamente dai contribuenti, che divennero loro dipendenti (paroikoi). Questo ovviò al bisogno dello Stato di riscuotere le entrate, aggirando così in qualche misura l’esigenza di reperire oro e emettere una sempre maggiore quantità di monete per alimentare l’economia. Oikonomides riassunse la situazione che si era creata sotto Alessio I così: “la semplificazione e la decentralizzazione che si produssero possono essere spiegate dal cambiamento dell’economia statale: lo Stato, che ne era stato precedentemente ilmotore principale e aveva imposto la circolazione di monete, ora in parte riduceva tale circolazione, adottando il sistema della concessione di privilegi. Una significativa parte dell’economia funzionava sotto forma di entrate “sulla carta”, cioè senza che il denaro cambiasse materialmente di mano”[51]. Nonostante tutto, il denaro continuò a cambiare di mano e .lo fece con sempre maggiore intensità.
Un altro grande risultato ottenuto da questo imperatore fu di introdurre una monetazione totalmente nuova nel 1092 o poco più tardi, basata sull’”hyperpyron nomisma”, moneta d’oro 21 carati di forma concava o “scodellata”. L’”electrum nomisma” (o aspron trachey), del valore di un terzo dell’hyperpyron e contenente 7 carati d’oro, che rimpiazzò il miliaresion d’argento; il biglione aspron trachey del valore di 1/48 di hyperpyron, infine due monete di rame, il tetarteron e il mezzo tetarteron, furono messe in circolazione, con valore di 1/864 e 1/1728 di hyperpyron. Il follis, la tradizionale moneta di rame, fu mantenuto solo come unità di conto, tra il biglione trachy e il terarteron, essendo equivalente a 1/288 di hyperpyron (3 tetartera)[52].Le frazioni di Hyperpyren rappresentavano una serie di valori scomparsi fin dal XI secolo, e ciò era sicuramente sintomatico del fatto che le monete non erano più coniate unicamente per un’economia statale, ma anche con un occhio alle esigenze del mercato.
Calcoli recenti, pur confermando che l’economia rimase fondamentalmente agricola, hanno stimato che la crescita del settore non agricolo arrivò a rappresentare il 25 per cento dell’intera economia entro la metà del XII secolo. Gli stessi calcoli, elaborati da Laiou e Morrison, suggeriscono che mentre il settore agricolo era monetizzato per il 35 per cento – comunque un’alta percentuale in termini medievali – il settore non agricolo era monetizzato per l’80 per cento. Il sistema monetario comneno rappresenta e sostiene queste nuove realtà[53].
La riforma monetaria permise, o meglio, richiese una revisione radicale del sistema di tassazione[54]. La base del nuovo sistema, che andò a pieno regime nel 1109, fu la riscossione delle tasse agricole nel nuovo electrum aspra trachea. Frazioni di trachea vennero riscosse in follis di rame, fintanto che rimasero in circolazione, e più tardi in tetartera (tre per un follis). L’hyperpyron d’oro non era usato nel nuovo sistema fiscale che, avendo favorito il tramonto del roga, vedeva diminuito enormemente il bisogno di oro nell’economia dello Stato. Per giunta, come abbiamo già visto, molte delle entrate provenienti dalle tasse non andavano nel patrimonio dello Stato, ma ad alimentare i privilegi concessi dall’imperatore. Dettagli della transizione dal vecchio al nuovo sistema sono contenuti in due significativi documenti noti come Palaia Logarikê e Nea Logarikê, “il vecchio e il nuovo sistema di conto”[55].
Qui possiamo renderci conto appieno del cambiamento radicale che si era prodotto: da un sistema espressione di un ceto contadino in larga parte libero, organizzato in unità fiscali note come distretti (choria), a uno dove il latifondo predominava e un’amministrazione efficiente richiedeva la valutazione di svariati possedimenti sparsi di pertinenza di “potenti” casate o istituzioni. “Il termine arcaico epibolê era riferito al nuovo sistema fiscale che avrebbe portato alla totale semplificazione della tassazione agraria nei secoli a venire e che era più facile da applicare su vasti possedimenti agricoli”[56].
Diversamente dal vecchio sistema, questo non teneva conto della qualità della terra tassata, quindi, trattandosi di una semplificazione, non può essere considerata un miglioramento in senso assoluto. Tuttavia, parallelamente all’epibolê, fu prevista la compilazione della praktika che documentava la fluttuazione dei possedimenti di ciascun territorio dell’impero e venne a sostituire l’oneroso sistema dell’aggiornamento dei registri terrieri. Inoltre, i contribuenti che possedevano terre in più di una unità fiscale (chorion) potevano richiedere che il dovuto fosse raggruppato in un solo documento, il praktikon, che poteva essere più facilmente aggiornato nel caso che un privato o un’istituzione vedessero aumentato il loro patrimonio o gli fossero concessi maggiori privilegi. Naturalmente, tutto questo comportò , come minimo, una approfondita indagine fiscale sulle più importanti province europee dell’impero.
Un tale drastico stravolgimento del sistema fiscale e contributivo richiese una analoga ristrutturazione dell’amministrazione del fisco. Il Sekreton tôn oikeiakôn, che era stato inizialmente responsabile del controllo delle terre statali, divenne il principale ente preposto a tutte le questioni relative alla tassazione delle province, aprendo la strada a una istituzione che esamineremo brevemente: pronoia[57]. Inoltre, Alessio eliminò molti dipartimenti ormai inutili creando due nuovi dipartimenti di ragioneria (logariastika sekreta), ciascuno presieduto da un logariastês: the megas logariastês tôn sekretôn, “grandi ragionieri dei dipartimenti” che curavano tutte le questioni fiscali; e uno, con un nome molto simile – megas logariastês tôn euagôn sekretôn -, che era preposto alle questioni riguardanti “aiuti alla collettività”, ma soprattutto si occupava delle proprietà imperiali[58]. Il titolo di “grande ragioniere dei dipartimenti di beneficenza” riflette il fatto che l’imperatore mise la filantropia ossia il welfare al centro delle sue riforme finanziarie. Come pio autocrate, così facendo intendeva portare lustro alla sua reputazione e al nome della sua famiglia, favorire i poveri dei centri urbani. Fondò, anzi rifondò, una importantissima istituzione benefica, nota come Orphanotropheion, “orfanotrofio”[59].
Il regno di Alessio I fu pertanto caratterizzato da misure volte a rifinire e riformare la difficile situazione dell’undicesimo secolo che egli aveva ereditato. I primi provvedimenti furono dettati dalla crisi della dirigenza e messi insieme alla meglio data la bancarotta dello Stato, dalle invasioni nemiche e da una burocrazia lenta e ridondante. Gli ultimi, invece, si avvalsero del grande prestigio politico acquisito dall’aver evitato il collasso totale dello Stato per costruire un sistema su misura e a beneficio di una piccola élite aristocratica strettamente intrecciata da matrimoni ad hoc.
In luogo di una lunga analisi del sistema comneno sotto il figlio di Alessio e il nipote, rispettivamente Giovanni II (1118-43) e Manuele I (1143-80), sarà forse sufficiente fornire osservazioni sulla evoluzione e le ramificazioni di due provvedimenti adottati da Alessio, uno è un esempio di crisi della dirigenza; l’altro trova origine nello sfruttamento della terra da parte delle classi aristocratiche: i privilegi commerciali concessi ai mercanti italiani e i pronoia.
Nel 1082, avendo bisogno di una flotta per sostenere le sue prime infruttuose campagne contro i Normanni che avevano invaso le province occidentali dell’impero, Alessio I offrì al doge di Venezia ampi incentivi per sostenere la causa imperiale. Fu allora – o forse più tardi: la data esatta dei privilegi è stata a lungo dibattuta – che i veneziani si assicurarono il diritto di esercitare il commercio su tutto il territorio dell’impero (con l’eccezione di Cipro, Creta e il Mar Nero), con l’esenzione dall’obbligo del pagamento dei pedaggi nei porti o dei diritti di dogana del 10 per cento (kommerkion) sulle loro merci. Per di più, a Costantinopoli erano loro garantite le banchine d’attracco lungo il Corno d’Oro, e il Doge ricevette il titolo di protosebastos, che lo fece entrare a far parte della famiglia imperiale come uno dei più anziani sebastoi [60]. E’ altamente improbabile che Alessio avesse preso in considerazione il perdurante impatto economico delle sue concessioni ai Veneziani, tanto meno lo fece nel 1111 quando, piegandosi alle pressioni della flotta pisana, consentì ai Pisani di pagare un Kommerkion ridotto al 4 per cento. Gli sforzi del figlio di Alessio, Giovanni, di annullare questi privilegi fallirono miseramente e nel 1155, proprio il figlio di Giovanni, Manuele, estese i privilegi ai Genovesi, ancora una volta con scarsa considerazione della politica economica[61].
E’ stato sostenuto che questi privilegi deprimevano il commercio “locale” bizantino, dando agli italiani il controllo totale sull’attività mercantile dell’impero e minandone l’economia[62]. Ora, si può scegliere tra due interpretazioni in positivo, la prima sostiene che i vantaggi di un mercato aperto e di una maggiore attività italiana stimolassero l’economia, cosicché i benefici erano superiori a qualsiasi perdita per il fisco. Tassando i pisani e i genovesi al 4 per cento in un mercato solido era molto più vantaggioso del 10 per cento in un mercato debole. Quindi, Aikonomides osservava che “nel dodicesimo secolo le entrate dello Stato derivanti da un’economia di mercato rivitalizzata sembrano essere state sostanziose, e certamente molto superiori a quelle del decimo secolo”. Forse questo spiegherebbe perché lo Stato dei Comneni appare ricco per il suo tempo; esso possedeva grandi somme di denaro liquido e non aveva particolari difficoltà a finanziare una costosa politica estera e a mantenere un perfino più costoso esercito di mercenari[63]. Questo per dire che le monete d’oro, che nel decimo secolo erano in gran ricavate dallo Stato dalle tasse sulla terra, e poi travasate a sostegno dell’economia di mercato, erano ora pompate nel mercato con la consapevolezza che molte di più ne sarebbero rientrate.
Una spiegazione alternativa sostiene che l’economia mercantile era poca cosa rispetto all’economia agraria per avere effetti apprezzabili di qualche tipo ; e la fetta italiana di tale economia era ancora irrisoria da punto di vista monetario, se comparata gli investimenti “locali”.
Hendy ha ribattuto che “la totalità degli investimenti “latini” avranno con tutta probabilità ammontato a meno della metà delle ricchezze di mezza dozzina di membri dell’alta aristocrazia di corte bizantina. Le entrate delle tasse riscosse dallo Stato saranno state appena meno delle entrate annuali ritenute adeguate a un solo sebastostokrator (40.000 hyperpyra)”[64].
Nessuna di queste tesi da sola è tuttavia esaustiva, dal momento che la principale conseguenza dei privilegi non fu sull’economia, ma sulla vita politica e sociale dell’impero, specialmente a Costantinopoli. La crescente presenza di “Latini”, in particolare dei mercanti residenti, provocò malcontento che non era circoscritto solo ai concorrenti frustrati. Isolati episodi di violenza non erano sconosciuti, ma i conflitti peggiori si manifestarono in occasione delle iniziative politiche. Il 12 marzo del 1171, l’imperatore Manuele I ordinò l’arresto indiscriminato dei mercanti veneziani su tutto il territorio dell’impero e la confisca dei loro beni. Il motivo preciso di questa decisione rimane una questione aperta: questo gesto sembrerebbe ispirato dai rapporti tesi tra i Veneziani e i loro concorrenti, particolarmente i mercanti genovesi, la cui sede in Costantinopoli era stata presa d’assalto dai veneziani del 1170. Ma i rapporti personali di Manuele con i veneziani si erano deteriorati nel momento in cui questi mise in atto una politica aggressiva nei confronti della Dalmazia, dell’Italia del nord e della Sicilia, largamente in competizione con l’imperatore di Germania Federico Barbarossa. Il clima di sospetto e la reciproca ostilità che seguì gli arresti del 1171 dimostra l’incongruità di questa iniziativa.
Ancora peggiore, tuttavia, fu il massacro dei “Latini” a Costantinopoli ordinato nel 1182 dall’usurpatore Andronico Comneno. Questi scatenò le sue truppe e bande di cittadini inferociti con l’intento di eliminare i “Latini”, ritenuti sostenitori del regime che voleva soppiantare, ma era anche consapevole del ritorno politico che sarebbe venuto da questa azione, che poteva incontrare sia il sostegno della plebaglia urbana che quello dei burocrati e del clero contrario al riavvicinamento all’Occidente. Il quartiere dei mercanti fu bruciato e razziato; l’ospedale dei Cavalieri di San Giovanni fu saccheggiato e un cardinale romano che si trovava casualmente in città fu assassinato, insieme a centinaia di altri. Molti hanno visto gli eventi del 1204 provocati, almeno in parte, da quelli del 1171 e del 1182.
La straordinaria crescita del commercio internazionale, fenomeno nel quale i mercanti italiani erano i più in vista e detestati operatori, si espandeva ben oltre Bisanzio. Ma l’importanza dei porti e delle città per questo tipo di commercio fu sicuramente esaltata dalle politiche dei Comneni. I privilegi mercantili furono sostenuti, come abbiamo visto, da una monetazione totalmente nuova, e l’oro, prima veicolo dell’economia statale, era ora poteva essere immesso nell’economia di mercato grazie all’enorme espansione dei privilegi fiscali sulle terre. Tali privilegi – di cui alcuni esempi abbiamo analizzato sopra – potrebbero perfino aver galvanizzato le economie di mercato locali, dove i nuovi proprietari terrieri “incoraggiavano” i loro contadini (paroikoi) a espandere la produzione. Laddove lo Stato riscuoteva le tasse in denaro contante, quelli cui era garantito il diritto alle entrate molto probabilmente riscuotevano tasse e affitti in natura, e vendevano il surplus per pagare il dovuto allo Stato (se non era stata concessa l’esenzione totale).
I privilegi sulla terra e quelli fiscali hanno una lunga storia, e sono cresciuti significativamente nell’undicesimo secolo, particolarmente nell’ambito delle istituzioni monastiche, tuttavia Alessio Comneno fu il primo a usarli sistematicamente per remunerare la sua famiglia e le truppe. Successivamente, “nel dodicesimo secolo, la donazione speciale cessò di essere un mero strumento fiscale diventando un vero e proprio sistema di finanziamento di pubblici funzionari e burocrati. Tale sistema si basava su un cambiamento che ebbe ben poche conseguenze pratiche sui beneficiati, ma era di enorme importanza per lo Stato: la donazione era valida solo per durata della vita del destinatario e non poteva essere ereditata[65]. In tal modo, lo Stato non alienava in via definitiva la terra, ma questa poteva essere riassegnata. Questo sistema sarebbe divenuto noto con i termini ben precisi di “assegnazione” o “previdenza”: oikonomia o pronoia.
Ci sono pochi riferimenti ad attribuzioni e conseguenti riassegnazioni di terre statali a militari durante il regno di Alessio, come in Macedonia[66], mentre, gli esempi diventano numerosi durante il regno di Manuele I, e lo storico Niketas Choniates fornisce una chiara spiegazione di tale pratica. I soldati, alcuni dei quali erano dei barbari – sottolinea Choniates – riscuotevano dai contadini ciò che del resto avrebbero dovuto pagare allo Stato e l’imperatore, a sua volta, cessava di pagarli attraverso le casse statali. Questa pratica, in seguito, non fu più ristretta ai soldati portatori di meriti eccezionali – per esempio Gregorio Pakouriano o Leo Kephala – ma ebbe più vasta applicazione [67].
La decentralizzazione e la demonetizzazione del sistema fiscale bizantino ebbe diverse significative conseguenze sociali. Molti agricoltori ora apprezzavano la presenza stabile di un “signore” militare cui essere alle dipendenze, sebbene essi rimanessero, in linea di principio, parakoi dello Stato. Questa situazione, per giunta, poteva arrecare ulteriori vantaggi: un supervisore attento, disposto a fornire protezione e capitali da investire per il proprio interesse. In effetti, ciascun “patronato” di questo tipo costituiva un importante cambiamento rispetto al tempo in cui la responsabilità del territorio (chorion) era condivisa da tutti i contadini [68].
Il collasso, 1183-1204
Tre furono le caratteristiche chiave del sistema Comneno maturo: un crescente ricorso ai privilegi sulla terra e sulle tasse, un aumentato ruolo degli occidentali, in particolare dei mercanti italiani, nella vita dell’impero e della sua capitale e il consolidamento del potere e dell’influenza di un gruppo di aristocratici legati ai Comneni per sangue o matrimonio. Ciascuna di esse si rivelò fonte di problemi nelle ultime decadi del dodicesimo secolo, e tutte insieme si dimostrarono disastrose per l’impero, provocando una serie di invasioni e ribellioni che risultarono insuperabili. Per il rapido declino delle fortune imperiali, Niketas Choniates fornisce la seguente spiegazione: “Fu la famiglia dei Comneni la principale causa della distruzione dell’impero. Per colpa delle loro ambizioni e dei loro dissidi, la casata subì la perdita di molte province e città e infine cadde in ginocchio. Questi Comneni che soggiornarono in mezzo ai barbari ostili ai bizantini furono la totale rovina del loro impero, e quand’anche essi tentarono di affermare e mantenere il controllo sugli affari pubblici, furono i più inetti, i più inadeguati e i più stupidi degli uomini” [69]. Qui Choniates mette in evidenza il problema principale del sistema comneno: il fatto che questo fosse basato su legami di appartenenza, destinati col tempo a sfociare in lotte intestine tra gruppi di potere di rivali, egualmente legittimati a reclamare il primato.
Nel primo periodo del suo regno, Manuele I era sopravvissuto ad almeno tre gravi minacce alla sua autorità da parte dei sebastoi [70]. Le peggiori furono quella del suo confidente Alessio Axhouch nel 1167, e quella di suo cugino Adronico negli anni 1150 e 1160. Andronico, infine, gli succedette nel 1182-83, deponendo il giovane figlio di Manuele, Alessio II. Andronico aveva il suo centro di potere tra i più alti membri dell’aristocrazia e quindi favorendo i membri della cerchia di Manuele, e perciò della sua, estese le sue relazioni. In ultima analisi, il suo regime, cominciato con il massacro dei Latini, si dimostrò troppo crudele per assicurarsi un consenso diffuso e troppo breve per consolidare sostanziali riforme. Dopo soli due anni dal suo insediamento, Andronico fu deposto da uno dei molti cugini del suo esteso gruppo familiare, Isacco Angelo, il pronipote di Alessio I. Ma Isacco, che aveva rappresentato gli interessi di un gruppo di famiglie aristocratiche nemiche di Andronico cadde egli stesso vittima dei conflitti tra fazioni. Egli subì numerosi attacchi durante i suoi dieci anni di regno, fino quando fu a sua volta detronizzato nel 1195. Fu sostituito dal fratello, Alessio III Angelo, che a sua volta subì una serie di tentativi di colpi di stato. Uno di questi quasi riuscì, fu ordito nel 1200 da un certo Giovanni Comneno “il grasso”, che era il nipote di Giovanni II da parte della figlia Maria. Suo padre era il sedizioso confidente di Manuele I, il sebastos Alessio Axouch.
Mentre i sebastoi entravano in competizione per la supremazia sul centro, la periferia dell’impero scivolava via dal loro controllo. Secondo Angold, “c’erano adesso importanti interessi locali da proteggere. La loro difesa era sempre più nelle mani delle dei potentati locali, spesso degli arconti. C’era sempre la tendenza o a governi deboli o a crisi politiche per ciascuna città che veniva a trovarsi sotto il controllo di una casata o del governatore della città, che generalmente era un rappresentante degli interessi locali”[71].Gli arconti erano gli esattori delle entrate delle tasse locali, ed erano sempre più riluttanti a riconoscere gli inetti e effimeri governatori di Costantinopoli e persino nei territori che non avevano una tradizione di governo indipendente, molti reclamarono l’autonomia da Costantinopoli. Ne sono notevoli esempi Teodoro Mangaphas a Filadelfia (vicino a Sardis in Asia Minore) e Isacco Comneno a Cipro [72]. Altri, con una qualche tradizione di governo autonomo, cominciarono a rivolgersi altrove per trovare protettori o simboli di potere e prestigio. Così nel 1189 i governatori di Serbia e Bulgaria strinsero un’alleanza con l’imperatore di Germania Federico Barbarossa. Essi intendevano così non soltanto difendere i propri interessi, come avevano fatto diversi pretendenti al trono di Ungheria durante il regno di Manuele, ma lanciare un vero e proprio attacco alla stessa Costantinopoli. E nel 1203-4, Kalojan (Ioannitsa), il governatore del regno di Bulgaria, rigettò l’offerta dell’imperatore bizantino, Alessio III, di vedersi riconosciuto il titolo imperiale e l’assegnazione di un patriarca alla Bulgaria. Egli preferì negoziare con il papa Innocenzo III, e ricevere la sua insegna di sede regale e arcivescovile – non imperiale e patriarcale – da Roma[73].
Nello stesso anno, 1203-4, la flotta veneziana che trasportava le armate della quarta Crociata a Costantinopoli aveva a bordo l’accecato Isacco II e suo figlio Alessio. Sappiamo da fonti occidentali che Alessio offrì ai veneziani il pieno pagamento della somma pattuita nel contratto con i comandanti della Quarta Crociata. Perciò, invece di trasportare i Latini direttamente in Terrasanta, la flotta navigò via Zara fino a Costantinopoli con l’intento di insediare Alessio sul trono imperiale. Alessio IV era l’archetipo del principotto comneno, così detestato da Choniates: allevato tra i barbari, un uomo stupido e inetto che portò l’impero alla totale rovina. Con il sacco della città l’impero collassò e non fu mai più completamente ricostituito.
Riflessioni su Bisanzio in un contesto più ampio.
La suddetta analisi suggerisce che due fenomeni furono fondamentali nella trasformazione e nella caduta del sistema imperiale bizantino: la prolungata crescita demografica ed economica, che lo Stato aveva completamente mancato di dirigere e di mettere a frutto; e l’emergenza di una aristocrazia potente, e consapevole del proprio potere, desiderosa di utilizzare le risorse a detrimento dello Stato. Questa formulazione si dimostra valida nel contesto di uno studio che analizzi le civiltà eurasiatiche contemporanee, dove fenomeni simili si palesavano frequentemente, espressione di interazioni tra “Stato” e “élite”.
Il concetto di Stato e di élite varia e richiede una appropriata definizione in ciascun caso. Nel caso bizantino la definizione risulta piuttosto lineare: Il termine greco bizantino politeia, che può essere utilmente tradotto come “Stato”, era un concetto astratto che implicava un maturo sistema pubblico legislativo e fiscale. Era praticamente identico a basileia o autorità imperiale, centrata su un imperatore, che “era la personificazione dello Stato, il depositario dell’autorità politica e giudiziaria, era anche la fonte di tutti gli atti clemenza, il responsabile dell’attuazione della legge” e della riscossione delle tasse[74]. L’”élite” bizantina era evidentemente l’aristocrazia, a noi nota attraverso la legislazione come la “potente” e tra di loro con i nomi delle casate e i legami di sangue e matrimonio. Noi ormai non distinguiamo più tra aristocrazie “civili” e “militari”, perché è chiaro che questi erano che due elementi della stessa élite. Gli aristocratici erano funzionari dello Stato, ma agivano anche, e sempre di più, nel loro personale interesse. Il culmine di questo processo fu la presa del governo imperiale da parte della famiglia dei Comneni per i propri fini.
A questo punto, una ulteriore formulazione suggerita da R.I. Moore può essere utile. L’interesse dell’”élite” era di minare lo Stato quel tanto sufficiente a trarre beneficio dalla sua debolezza; ma non troppo da farlo collassare sotto le pressioni interne e esterne. Nel caso di Bisanzio, le pressioni interne erano esercitate da coloro che erano privati dell’accesso alle risorse (nella formulazione di Moore, i poveri), ma anche da aristocratici concorrenti in cerca di maggiori privilegi,. Le pressioni esterne erano invece esercitate dai poteri confinanti, che, quando agivano contemporaneamente, provocavano periodi di crisi. Due periodi di crisi, in effetti, possono essere distinti: il primo iniziò nel 1071 e finì nel 1091-92, quando gli aristocratici competevano per il trono, perfino mentre lo Stato stava subendo invasioni da est e da ovest; il secondo periodo comincia nel 1183-86 e si conclude nel 1204, quando, ancora una volta, la competizione per il controllo del trono lasciò spazio a ribellioni nelle province del nord e dell’est e ad invasioni nemiche da ovest. Lo Stato bizantino si riprese dal primo periodo solo attraverso riforme radicali del sistema imperiale. Ma proprio le conseguenze di queste riforme avrebbero poi reso l’Impero incapace di fronteggiare il secondo periodo di crisi, quando dovette cedere alle pressioni interne ed esterne incrociate.
L’analisi presentata qui è limitata sotto diversi aspetti, poiché si focalizza esclusivamente sulle “trasformazioni, strettamente legate tra loro, della gestione socio-economica e politica”, mentre presta poca attenzione ai “profondi cambiamenti della natura di altri processi più sfuggenti[75]. Sfortunatamente non è possibile in questo breve trattato “trovare dei modi più significativi ed esaurienti di rappresentare il contributo culturale e l’eredità istituzionale” e quindi “andare oltre una mera esposizione di spunti interessanti”[76]. Ho fiducia tuttavia che l’analisi abbia offerto una ulteriore speculazione da parte di storici sociologi, per arricchire la precedente indagine di Arnason[77].
Può dirsi che Bisanzio abbia condiviso un rinascimento universale, come nella definizione di Wittrock[78]. Cioè, Bisanzio condivise una serie di trasformazioni avvenute tra il nono e il tredicesimo secolo che portarono a “intensi schemi di riflessività intellettuale” (*) [79] Si potrebbe di sicuro avere da ridire su questo tipo di scenario rispetto all’impero del nono e dei primi anni del decimo secolo, tuttavia, negli ultimi anni del decimo secolo Bisanzio prese una strada diversa. Se partecipò a questo rinascimento universale nell’undicesimo e dodicesimo secolo, lo fece come principale vittima dell’Europa emergente e dell’Islam risorgente.
(*) La riflessività in sociologia è un fenomeno che ha luogo in un sistema sociale quando l’auto-analisi di un attore o l’analisi di un sistema sociale da parte di un teorico ed i relativi sviluppi o modifiche della teoria e delle credenze, influiscono sul sistema in esame trasformandolo
Note
[1] L’interpretazione dominante durante il ventesimo secolo fu quella di G. Ostrogorsky, History of the Byzantine State, 2ND English edn, tr. J. Hussey (Oxford, 1968). Significative porzioni di questo breve articolo non seguono Ostrogorsky. Tuttavia, molto può apparire richiamare quanto segue: “Da Romano I fino a Basilio II l’autorità centrale ha tentato di erigere una barriera contro il bisogno dei grandi magnati di acquisire terra, e questa è ora crollata. I piccolo proprietari liberi scomparvero rapidamente senza una protesta, i ricchi signori terrieri assorbirono le proprietà di contadini e soldati, trasformando i precedenti proprietari in mano d’opera. Così le solide fondamenta su cui Bisanzio era stata costruita fin dalla sua rinascita nel settimo secolo furono spazzate via, con il risultato che la potenza delle sue forze armate e il gettito fiscale declinarono; il conseguente impoverimento indebolì ancor di più il potere militare dello stato. Non c’è, tuttavia, nessuna giustificazione per ritenere i sovrani di questo periodo responsabili di aver iniziato questo processo. Il cambiamento politico che appare originarsi con loro fu in realtà dovuto ad uno sviluppo che non poteva più a lungo venir controllato. Furono semplicemente gli esponenti di vigorose ed inarrestabili forza sociali ed economiche”. La mia interpretazione diverge da quella di Ostrogorsky sulla natura di queste forze, infatti egli scrisse in un’epoca in cui si riteneva universalmente che Bisanzio attraversò in questo periodo un declino economico e la stagnazione, e che le sue istituzioni furono corrotte sotto l’influenza di pratiche “feudali” importate dalla Cristianità Latina.
[2] Il lavoro di Michael Hendy, “Byzantium, 1081-1204: an economic reappraisal”, TRHS 5th series, 20 (1970), 31-52, ha ricevuto rapidamente un’accettazione quasi universale. La nuova ortodossia è stata racchiusa nel recente e monumentale The Economic History of Byzantium: From the Seventh Through the Fifteenth Century, ed. A.Laiou, 3 vols (Washington, DC, 2002), di qui innanzi EHB.
[3] Michele Psello, Mesaionike vivliotheke, ed. K. Sathas (Paris, 1874), IV, 430-1, riportato completamente in traduzione da M. Angold, The Byzantine empire. A political history, 1025-1204, 2nd edn (London-New York, 1997), 67. Sono stati fatti, in anni recenti, studi esaustivi sull’aristocrazia ed il suo ethos. Per iniziare vedere gli articoli raccolti in M. Angold, ed., The Byzantine Aristocracy (Oxford, 1984), soprattutto P. Magdalino, “Byzantine snobbery”, 58-78.
[4] E. Patlagean, “Les débuts d’une aristocrazie byzantine et le témoignage de l’historiographie: système des noms et liens de parenté aux IX et X siècles”, in A. Angold, ed., The Byzantine Aristocracy, 24-43; A. Kazhdan, “The formation of Byzantine family names in the ninth and tenth centuries”, Byzantinoslavica 58 (1997), 90-110.
[5] P. Stephenson, “A development in nomenclature on the seals of the Byzantine provincial aristocracy in the late tenth century”, Revue des études byzantines 52 (1994), 187-211; con correzioni offerte da W. Seibt, “Beinamen, Spitznamen, Herkunftsnamen, Familiennamen bis ins 10. Jahrhundert: die Beitrag der Sigillographie zu einem prosopographischen Problem“, in W. Seibt, ed., Studies in Byzantine Sigillography 7 (Washington, DC, 2002), 119-36. Vedere anche W. Seibt, “Probleme mit mittelbyzantunischen Namen (besonders Familiennamen) auf Siegeln”, in J.C. Cheynet e C. Sode, eds, Studies in Byzantine Sigillography 8 (Muniche, 2003), 1-7.
[6] La divisione della società in potenti e poveri è stata sanzionata nella tarda antichità e nessun nuovo vocabolario è stato introdotto per meglio descrivere la situazione medievale. Vedere E. Patlagean, Paurété économique et pauvrété sociale à Byzance 4-7 siècles (Paris, 1977), 11-35.
[7] N. Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy”, in EHB, 1005, “… la difficoltà di prevenire le invasioni sul suolo statale fu principalmente il risultato dell’inerente debolezza di un meccanismo amministrativo controllato dagli aristocratici che erano chiamati ad intraprendere azioni contro altri aristocratici”.
[8] I testi di tutte le novelle rilevanti sono raccolti con commentario in N. Svoronos e P. Gounaridis, eds, Les novelles des empereurs Macédoniens concernant la terre et les stratiotes (Atene, 1984).
[9] Oikonomides. “The role of the Byzantine state in the economy”, 1006.
[10] Michele Psello, Chronographia, VI, 175; The History of Psellus, ed. C. Sathas (London, 1899), 168; Michael Psellus, Fourteen Byzantine Rulers, tr. E.R.A. Sewter (Harmondsworth, 1966), 247.
[11] Life of Athanasios of Athos, Vita B, 24: Vita duae amtiquae sancti Athanasii Athonitae, ed. J. Noret, (Turnhout, 1982), 150-1.
[12] Vedere in generale R. Morris, Monks and Laymen in Byzantium, 843-1118 (Cambridge, 1995).
[13] Per una più attenta spiegazione vedere P. Lemerle, The Agrarian History of Byzantium from the Origins to the Twelfth Century (Galway, 1979), 78-80. Sul terrore che ispirò Basilio, vedere ora P. Stephenson, The Legend of Basil the Bulgar-Slayer (Cambridge, 2003).
[14] P. Magdalino. “Justice and finance in the Byzantine state, ninth to twelfth centuries”, in A. Laiou and D. Simon, eds, Law and Society in Byzantium, Ninth-Twelfth Centuries (Washington, DC, 1994), 93-115, at 105.
[15] Psello, Chronographia, I, 31; ed. Sathas, 16; tr. Sewter, 45. Vedere Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 1017. Il talanton aveva precedentemente significato un kentenarion, ovvero 100 libbre di oro. Ciò confuse Angold, Byzantine Empire, 31, che fornì una stima del valore in termini moderni: 128 miliardi $, basandosi su un prezzo dell’oro di 400 $ per oncia. Tuttavia, vedere C. Morrisson, “Byzantine money: its production and circulation”, in EHB, 908-66, at 920, per chiarificazioni. Il prezzo dell’oro per oncia oggi, 5 Marzo 2004, è ancora di 400$, dopo essere arrivato a 350$ al tempo del simposio di Uppsala (Giugno 2003), dando un equivalente approssimativo compreso tra 1-1.3 miliardi di dollari.
[16] M. Hendy, “Introduction”, The Economy, Fiscal Administration and Coinage of Byzantium (Northampton, 1989), xi-xii. Cfr. Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 978.
[17] Determinati funzionari provinciali furono autorizzati, in realtà obbligati ad ottenere i propri salari come imposte o “donativi” (synetheiai) dai loro municipi. Si può immaginare che questa poco chiara distinzione tra l’esercizio di una autorità pubblica e di potere privato possa aver portato ad ancor più grandi tensioni nelle periferie, ed inoltre esacerbare il principale fenomeno qui descritto, ovvero la crescita delle aristocrazie private in ricchezza e potere a spese dello Stato. E’ importante in questo contesto notare che i principali funzionari che non ottenevano la roga statale e che erano costretti ad ottenere tutte le risorse dalle terre in cui erano istallati includevano tutti i governatori militari (strategoi) delle terre ad ovest del fiume Strymon, ovvero le terre dei Balcani conquistate da Basilio II. Vedere N. Oikonomides, “Title and income at the Byzantine court”, in H. Maguire, ed., Byzantine Court Culture from 829 to 1204 (Washington, DC, 1997), 199-215; Oikonomides, “Role of the byzantine state in the economy”, 999, 1009-11.
[18] Liutprando, Antapodosis, VI, 10; tr. F. Wright, The Works of Liutprand of Cremona (London, 1930), 211-12.
[19] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy”, 995-6.
[20] Ioannis Scylitzes Synopsis historion, ed. J. Thurn, CFHB 5 (Berlin & New York, 1973), 375; Lemerle, Agrarian History, 79-80, 202.
[21] Successivamente l’accumulazione di bottini di Basilio II, lo Stato bizantino appare essere stato in grado d’importare solamente limitate scorte aggiuntive di oro.Così Cécile Morrisson non ha individuato apprezzabili aumenti delle scorte di oro disponibile battuto dai Bizantini oltre a quello necessario per contrastare la dispersione naturale. Questo è stato stimato a diversi livelli, da un insostenibile 2% – che risulterebbe da una sparizione del 90% della valuta circolante in un solo secolo – ad un più giudizioso 0.2-1%. Vedere Morrisson, “Byzantine money: its production and circulation”, 939.
[22] P. Stephenson, Byzantium’s Balkan Frontier. A Political Study of the Northern Balkans, 900-1204 (Cambridge, 2000), 130-5, dove si ipotizza inoltre che la moneta fosse necessaria per facilitare le politiche commerciali lungo il Danubio inferiore, miranti a prevenire i raid dei nomadi delle steppe, inizialmente Pecenghi e più tardi Cumani.
[23] Stephenson, Byzantium’s Balkan Frontier, 91-2; J. Shepard, “The uses of the Franks in eleventh-century Byzantium”, Anglo-Norman Studies 15 (1993), 275-305.
[24] Pace Ostrogorsky, History of the Byzantine State, 331-2: “Il governo civile odiava così tanto l’aristocrazia militare da ridurre sistematicamente la potenza delle forze armate e nei suoi tentativi di scoprire nuove sorgenti di valuta convertì in soldati-contadini in pagatori di tasse…il minare l’organizzazione dei themi significò niente meno che la disintegrazione del sistema di governo su cui la grandezza Bizantina era stata costruita durante i secoli precedenti”.
[25] Morrisson, “Byzantine money: its production and circulation£, 939, 950, ha stimato che in ogni singolo momento 1/3 di tutte le monete d’oro fosse accumulato, e così fuori dalla circolazione. Angold, Byzantine Empire, 85, ha tradotto un piccolo poema della metà dell’undicesimo secolo di Cristoforo di Melitene: “Having gazed on money, much as a polecat does on fat / You accumulate gold just to bury it in a vat / What good does it do you underground / When that is where you are bound?”. Vedere E. Kurtz, ed., die Gedichte des Christophoros Mitylenaios (leipzig, 1903), no. 134.
[26] Angold, Byzantine Empire, 85; Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 1018.
[27] Morrisson, “Byzantine money: its production and circulation”, 937, 941.
[28] Il carico fiscale totale, l’arithmion, ammontava solitamente al 23-30% dei redditi derivanti da una terra coltivata. Esenzioni dal pagamento di imposte addizionali potevano essere ottenute, più frequentemente dai monasteri e dai “potenti”. D’altra parte, corvé aggiuntive potevano essere imposte sopra i “poveri” da esattori delle tasse poco scrupolosi (ad esempio agenti dei “potenti”), aumentando significativamente il loro carico fiscale totale. Vedere Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 995-6.
[29] Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 1020.
[30] Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy”, 1009.
[31] Psello, Chronographia, VI, 29; ed. Sathas, 105; tr. Sewter, 170. E’ come se tutti questi promossi non fossero “vagabondi mascalzoni del mercato”.
[32] Ostrogorsky, History of the Byzantine State, 342. Vedere generalmente su questo argomento Angold, Byzantine Empire, 16-17: “La vecchia nozione…che la crisi dell’undicesimo secolo ricevesse espressione politica nella forma di una lotta tra l’aristocrazia civile e quella militare…è stata semplicemente messa da parte”.
[33] Questo va contro l’asserzione di Psello che “l’idea di Costantino fosse quella di svuotare il tesoro del suo denaro”. In altre parti Psello attribuisce il misero stato delle finanze pubbliche ai progetti edilizi di vari imperatori (generalmente chiese imperiali o fondazioni monastiche) e alla stravaganza delle imperatrici Zoe e Teodora, che “confusero le frivolezze dell’harem (gynaikonitis) con importanti affari di Stato”. Vedere Psello, Chronographia, VI, 5; ed. Sathas, 95; tr. Sewter, 157. Angold, Byzantine Empire, 83, segue questa linea di ragionamento.
[34] Michele Attaliate, Historia (Bonn, 1853), 76; riportato in traduzione completa da Magdalino, “Justice and finance in the Byzantine state”, 94.
[35] Psello, Chronographia, VI, 30; ed. Sathas, 105; tr. Sewter, 171: “Gradualmente l’errore di questa politica divenne evidente quando i privilegi, tanto ambiti nei tempi andati, vennero ora distribuiti con un generoso trasporto che non conoscenva limiti, con la conseguenza che i beneficiari persero l’eminenza”. Vedere Giovanni Zonara, Epitomae historiarum, eds M. Pinder & T. Buttner-Wobst (Bonn, 1897), III, 676, per ulteriori informazioni sulla vendita delle cariche.
[36] Psello, Chronographia, VII, 60; ed. Sathas, 218; tr. Sewter, 312.
[38] Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy,” 1020.
[39] Angold, Byzantine Empire, 44-8.
[40] M. Hendy, “‘Byzantium, 1081-1204’: the economy revisited twenty years on,” in Hendy, The Economy, Fiscal Administration and Coinage of Byzantium, III, 1-48, at 3-9, esp. 9: “. . . c’è poco dubbio che fu proprio lo smembramento e/o la perdita della sua principale piattaforma territoriale (segnatamente quella anatolica) che determinò uno dei fattori scatenanti che segnarono il destino della vecchia aristocrazia militare. Ciò permise la formazione – invero la deliberata costituzione – di una nuova aristocrazia da parte della dinastia dei Comneni che implicava l’appropriazione di fatto totale dell’apparato statale preesistente”
[41] Nicéphore Bryennios Histoire, ed. P. Gautier, CFHB 9 (Brussels, 1979), p. 211. Vedi anche Skylitzes Continuatus, Ê synecheia tês chronografias tou Ioannou Skylitze, ed. E. T. Tsolakês (Thessaloniki, 1968), 162-3; Stephenson, Byzantium’s Balkan Frontier, 141-4.
[42] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 1017, suggerisce che potremmo considerarla una procedura standard: il surplus di ricchezza era tesaurizzato sotto questa forma, quale simbolo della generosità imperiale nei periodi di prosperità, per essere poi incassato in quelli di crisi.Vedi Alexiad, V, 1-2; tr. E. R. A. Sewter, The Alexiad of Anna Comnena (Harmondsworth, 1969), 156-60.
[43] Su questo funzionario, vedi P. Magdalino, “Innovations in government,” in M. Mullett e D. Smythe, eds, Alexios I Komnenos, I: Papers (Belfast, 1996), 146-66 a 153-5; Magdalino, “Justice and finance,” 110-11.
[44] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 1021.
[45]P. Magdalino, The Empire of Manuel I Komnenos, 1143-1180 (Cambridge, 1993), 181.
[46] Zonaras, Epitomae historiarum, III, 766.
[47] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 1040. Vedi Actes de Lavra, I, eds P. Lemerle et al., Archives de l’Athos, V (Paris, 1970), no. 46.
[48] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 1041; Actes de Lavra, I, no. 151.
[49] P. Gautier, “Le typikon du sébaste Grégoire Pakourianos,” Revue des études byzantines 42 (1984), 5-146; P. Lemerle, Cinq études sur le XIe siècle byzantine (Paris, 1977), 113-91.
[50] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 1041; Actes de Lavra, I, no. 44, 45, 48, 49, 60.
[51] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 995.
[52] Morrisson, “Byzantine money: its production and circulation,” 924, 932-3. L’identificazione del conio riformato si deve a M. Hendy, Coinage and Money in the Byzantine Empire, 1081-1261 (Washington, DC, 1969).
[53] A. Laiou, “The Byzantine economy: an overview,” in EHB, 1153-6.
[54] A. Harvey, Economic Expansion in the Byzantine Empire, 900-1200 (Cambridge, 1989), 80-119.
[55] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 976, 1030.
[56] Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 976, 1031.
[57] Oikonomides, “L’évolution de l’organisation administrative de l’empire byzantin au XIe siècle,” Travaux et mémoires 6 (1976), 125-52 a 136-7.
[58] Oikonomides, “L’évolution de l’organisation administrative,” 140-1; Oikonomides, “The role of the Byzantine state in the economy,” 994-5.
[59] Vedi T. Miller, The orphans of Byzantium (Washington, DC, 2003).
[60] Alexiad, VI, 5; tr. Sewter, 191.
[61] Magdalino, Empire of Manuel I, 142-50.
[62] Hendy, “ ‘Byzantium, 1081-1204’: the economy revisited,” 21-2: “Sarebbe davvero tedioso e alquanto pesante entrare dei dettagli di questo punto”.
[63] Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy,” 1052.
[64] Hendy, “ ‘Byzantium, 1081-1204’: the economy revisited,” 26.
[65] Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy,” 1042.
[66] Actes de Lavra, I, nos. 56, 64; Oikonomides, “Role of the Byzantine state in the economy,” 1043.
[67] Nicetae Choniatae historiae, ed. J.-L. Van Dieten, CFHB 11/1 (Berlin, 1975), 208-9; Lemerle, Agrarian History, 230-6.
[68] Magdalino, Empire of Manuel I, 172, 175-7: “Manuele diede un significativo, positivo e consapevole contributo allo sviluppo “dal basso” del feudalesimo locale.
[69] Choniates, ed. Van Dieten, 529.
[70] Magdalino, Empire of Manuel Komnenos, 217-20, suggerisce che probabilmente abbiamo sottovalutato la prevalenza delle fazioni tra i sebastoi durante il regno di Manuele. Per dettagli e analisi vedi J.-C. Cheynet, Pouvoir et contestations à Byzance (Paris, 1990), 106-10, 413-25.
[71] Angold, Byzantine Empire, 177.
[72] Angold, Byzantine Empire, 307-10.
[73] Stephenson, Byzantium’s Balkan Frontier, 279-81, 305-12.
[74] D. Jacoby “The encounter of two societies: western conquerors and Byzantines in the Peloponnesos after the Fourth Crusade,” American Historical Review 18 (1973), 875; citato da “The Byzantine state on the eve of the battle of Manzikert,” Byzantinische Forschungen 16 (1991), 9-34 a 9-10. Vedi anche G. Dagron, Emperor e Priest. The Imperial Office in Byzantium (Cambridge, 2003).
[75] B. Wittrock, “Cultural crystallization and conceptual change: modernity, axiality and meaning in history,” in Zeit, Geschichte und Politik. Zum achtzigsten Geburtstag von Reinhard Koselleck, ed. E. Konttinen et al. ( Jyväskylä, 2003), 105-34 a 106.
[76] Wittrock, “Cultural crystallization,” 119; B. Wittrock, “Social theory and global history: the three cultural crystallizations,” Thesis Eleven 65 (May 2001), 27-50 a 32.
[77] J. Arnason, “Approaching Byzantium: identity, predicament and afterlife,” Thesis Eleven 62 (August, 2000), 39-69; Vedi anche Wittrock, “Social theory and global history,” 39-40, che tende a incorporare Bisanzio in un’analisi più vasta.
[78] Wittrock, “Social theory and global history,” 37-40.
[79] Wittrock, “Social theory and global history,” 38.